MATTEO BECHINI

MATTEO BECHINI at

 IL SENSO DELLA VITA
CITTÀ DEL MESSICO, 10 OTTOBRE 1980
SCAMBIO DI OPINIONI CON I MEMBRI DI UN GRUPPO DI STUDIO

Tratto integralmente da "Opere complete Vol. 1", Silo, 
http://www.silo.net/

Vi ringrazio per avermi offerto l’opportunità di discutere con voi alcuni punti di vista che si riferiscono ad aspetti rilevanti della nostra concezione della vita umana. Dico discutere perché questa non sarà una dissertazione ma uno scambio di opinioni.

Il primo punto di vista da prendere in esame riguarda il tema centrale di tutte le nostre riflessioni. Il nostro oggetto di studio coincide forse con quello delle scienze? No, perché se così fosse sarebbero sicuramente le scienze ad avere l’ultima parola.

Il nostro interesse si centra sull’esistenza umana, intesa non come fatto biologico o sociale (dato che già esistono scienze che dedicano i loro sforzi a questi aspetti), quanto piuttosto come esperienza personale, come vissuto quotidiano. Questo perché una qualunque persona, quand’anche si interroghi sul fenomeno sociale e storico che è costitutivo dell’essere umano, si porrà tali domande a partire dalla propria vita quotidiana; se le porrà a partire dalla propria situazione; se le porrà sotto la spinta dei propri desideri, delle proprie angosce, dei propri bisogni, dei propri amori, dei propri odii; se le porrà sotto la spinta delle proprie frustrazioni o dei propri successi; se le porrà a partire da qualcosa che precede le statistiche e le teorie. Se le porrà a partire dalla vita stessa.

E che cosa c’è di comune ed al tempo stesso di peculiare in ogni esistenza umana? La ricerca della felicità e quella dei modi per vincere il dolore e la sofferenza sono comuni ad ogni esistenza umana ed insieme peculiari di ciascuna. Questa è una verità sperimentabile da tutti e da ciascuno.

Ma che cos’è la felicità cui l’essere umano aspira? La felicità è ciò che l’essere umano crede che essa sia. Quest’affermazione, piuttosto sorprendente, si basa sulla constatazione che persone diverse si orientano verso immagini o ideali di felicità diversi. Senza contare che tali ideali cambiano con la situazione storica, sociale e personale. Questo ci porta a concludere che l’essere umano cerca quel che crede lo farà felice e conseguentemente quel che crede lo allontanerà dalla sofferenza e dal dolore.

Proprio per l’aspirazione alla felicità sorgeranno le resistenze nella forma del dolore e della sofferenza. In che modo si potranno vincere queste resistenze? Per poter rispondere dobbiamo prima interrogarci sulla loro natura.

Il dolore è per noi un fatto fisico. Tutti ne abbiamo esperienza. Si tratta di un fatto sensoriale, corporeo. La fame, le avversità della natura, le malattie, la vecchiaia producono dolore. Questa sua caratteristica ci permette di distinguere il dolore da fenomeni che invece non hanno nulla a che vedere con l’aspetto sensoriale. Solo il progresso della società e della scienza può far retrocedere il dolore. E questo è il campo specifico in cui possono investire le loro migliori energie i riformatori sociali e gli scienziati ma soprattutto i popoli che sono i generatori del progresso di cui i riformatori e gli scienziati si nutrono.

La sofferenza, invece, è di natura mentale. Non è un fatto sensoriale come il dolore. La frustrazione, il risentimento sono anch’essi degli stati dei quali abbiamo esperienza ma che non possiamo localizzare in un organo specifico o in un insieme di organi. Possiamo chiederci se il dolore e la sofferenza, no-nostante la loro diversa natura, possano interagire. E’ certo che il dolore può motivare la sofferenza: in tal senso il progresso sociale e quello della scienza possono far retrocedere un aspetto della sofferenza. Ma dove troveremo la soluzione specifica per far retrocedere la sofferenza? La troveremo nel senso della vita. E non esiste riforma né progresso scientifico che possa allontanare la sofferenza prodotta dalla frustrazione, dal risentimento, dalla paura della morte, dalla paura in generale.

Il senso della vita è una direzione verso il futuro che dà coerenza alla vita, che permette di dare un inquadramento alle diverse attività che si portano avanti e che giustifica la vita stessa in modo completo. Alla luce del senso anche il dolore nella sua componente mentale e la sofferenza in generale retrocedono e si rimpiccioliscono, venendo interpretati come degli impedimenti superabili.

Ma quali sono le fonti della sofferenza umana? Sono quelle da cui scaturisce la contraddizione. Si soffre quando si vivono situazioni contraddittorie ma si soffre anche nel ricordarle e nell’immaginarle.

Queste fonti sono state chiamate “le tre vie della sofferenza”; il loro segno può cambiare se cambia il modo in cui l’essere umano si colloca nei confronti del senso della vita. Dovremo esaminare brevemente queste tre vie per poi passare a parlare del significato e dell’importanza del senso della vita.

(Domanda poco udibile nella registrazione)

È chiaro che la sociologia studia le aggregazioni umane così come altre scienze studiano gli astri o i microrganismi. Analogamente la biologia, l’anatomia e la fisiologia studiano il corpo umano e lo fanno da differenti punti di vista. La psicologia, poi, studia il comportamento psichico. Ma tutti coloro che si dedicano a questi studi (i ricercatori, gli scienziati) non studiano la propria esistenza. Non c’è scienza che permetta di studiare la propria esistenza. La scienza non dice nulla riguardo alla situazione di una persona che, tornando a casa, riceve una porta in faccia, oppure uno sgarbo od al contrario una carezza.

Noi, invece, ci occupiamo proprio dell’esistenza umana ed è per questo che i dibattiti scientifici non sono di nostra competenza. D’altra parte non ci sfuggono le serie carenze delle scienze, le serie difficoltà che si presentano quando esse cercano di definire ciò che avviene nell’esistenza umana: qual è la natura della vita umana se essa è considerata in rapporto al senso; qual è la natura della sofferenza e del dolore; qual è la natura della felicità e quale quella della sua ricerca. Ma questi sono proprio gli oggetti del nostro studio, gli oggetti del nostro interesse. Da questo punto di vista si potrebbe dire che noi abbiamo una posizione nei confronti dell’esistenza, una posizione nei confronti della vita, più che una scienza su questi temi.

(Domanda poco udibile nella registrazione)

È chiaro che noi abbiamo messo in risalto il fatto che la gente cerca quello che crede sia la felicità. Il punto è che oggi si crede una cosa e domani se ne crede un’altra. Se confrontiamo, guardando in noi stessi, l’idea di felicità che avevamo a dodici anni con quella che abbiamo oggi, ci apparirà chiaro quanto sia cambiata da allora la nostra prospettiva; qualcosa di simile succede se interroghiamo dieci persone diverse: esse ci presenteranno altrettanti punti di vista sulla felicità. Nel Medioevo si aveva un’idea generale della felicità diversa da quella dell’epoca della Rivoluzione Industriale. In genere i modi in cui i popoli o gli individui ricercano la felicità subiscono continui cambiamenti. La felicità, intesa come oggetto, costituisce un tema niente affatto chiaro. Anzi, sembrerebbe proprio che non esista un oggetto che dia la felicità. Ciò che si cerca è più uno stato d’animo che un oggetto tangibile.

Certo, a volte ci si può anche confondere e credere che un sapone rappresenti la felicità più vera, come vuole un certo tipo di pubblicità. Tutti però intendiamo che, quando si parla di felicità, in realtà si sta cercando di descrivere uno stato più che un oggetto: perché, per quanto ne sappiamo, tale oggetto, appunto, non esiste. Ma non è neppure chiaro che cosa sia lo stato di felicità, stato che mai viene definito in modo esauriente. Finora si è ricorsi a dei trucchetti e la gente non ne ha ricavato alcuna chiarezza. Bene, possiamo andare avanti rispondendo ad altre domande, se ci sono...

(Domanda poco udibile nella registrazione)

Quest’ultima domanda riguarda il superamento del dolore e della sofferenza: come mai alla vittoria sul dolore, che si ottiene grazie al progresso della società e della scienza, non corrisponde un parallelo superamento della sofferenza?

Vi sono alcuni che sostengono che l’essere umano non sia progredito affatto. E’ invece ovvio che l’essere umano sia cresciuto, che abbia fatto grandi passi avanti nella scienza, nella conquista della natura. E’ vero che le diverse civiltà si sono sviluppate in modo diseguale, è vero che esistono problemi di tutti i tipi ma è anche vero che l’essere umano e la civiltà umana hanno fatto grandi progressi. Si tratta di un fatto evidente. Ricordatevi che in altre epoche un batterio era capace di causare una strage, mentre oggi un farmaco somministrato in tempo può bloccarne rapidamente gli effetti. C’è stato un tempo in cui mezza Europa moriva per un’epidemia di colera. Oggi questo non può più succedere. Si sta combattendo contro malattie vecchie e nuove, che sicuramente si arriverà a sconfiggere. Le cose sono cambiate e di molto. Però è chiaro che in materia di sofferenza un uomo di 5000 anni fa e un uomo di oggi vivono e patiscono le stesse delusioni, vivono e patiscono la paura, vivono e patiscono il risentimento. Li vivono e li patiscono come se per loro la storia umana non fosse mai esistita, come se in questo campo ogni essere umano fosse sempre il primo. Il dolore ha perduto terreno grazie ai progressi di cui parlavamo ma non per questo la sofferenza umana è diminuita: su questo problema non ci sono state risposte adeguate. E in questo senso esiste una certa disparità tra dolore e sofferenza. Come facciamo a dire, però, che l’essere umano non è progredito? Forse è proprio perché ha fatto dei grandi passi avanti che oggi è in grado di porsi domande di questo tipo; forse è proprio per questo che oggi sta cercando di dare una risposta a degli interrogativi che in un’altra epoca non era obbligato a porsi. Le tre vie della sofferenza sono necessarie all’esistenza umana ma il loro normale funzionamento è stato distorto. Cercherò di spiegarmi meglio.

Tanto la sensazione di ciò che ora vivo e percepisco quanto la memoria di ciò che ho vissuto e l’immaginazione di ciò che potrei vivere sono necessarie all’esistenza umana. Interrompiamo anche una sola di queste funzioni e l’esistenza si disarticolerà: rifiutiamoci alla memoria e perderemo persino il controllo motorio del nostro corpo; eliminiamo la sensazione e perderemo ogni capacità di regolazione del corpo stesso; blocchiamo l’immaginazione e verrà meno ogni possibilità di orientarci, di scegliere una direzione. Ma il funzionamento di queste tre vie, che sono necessarie alla vita, può venire distorto al punto che esse si trasformano in nemiche della vita, in portatrici di sofferenza. Così nella nostra vita quotidiana soffriamo per quel che percepiamo, per quel che ricordiamo e per quel che immaginiamo.

Abbiamo detto in altre occasioni che si soffre quando si vive una situazione contraddittoria, come quando facciamo delle cose che si oppongono l’una all’altra. Soffriamo anche per il timore di non ottenere quello che desideriamo dal futuro o per il timore di perdere ciò che abbiamo. E soffriamo, è chiaro, per ciò che abbiamo perso, per ciò che non abbiamo ottenuto, per ciò che abbiamo sofferto in precedenza: per un’umiliazione, un castigo, un dolore fisico ormai passato; per un tradimento, un’ingiustizia, una vergogna. Ma questi fantasmi che vengono dal passato noi li viviamo come se fossero presenti. Essi, che sono la fonte del rancore, del risentimento e della frustrazione, condizionano il nostro futuro e ci fanno perdere la fede in noi stessi.

Discutiamo il problema delle tre vie della sofferenza.

Se le tre vie rendono possibile la vita, come mai il loro funzionamento si è distorto? L’uomo avrebbe dovuto imparare a destreggiarsi tra di esse ed ad utilizzarle a proprio favore se, come abbiamo ammesso, ha sempre cercato la felicità. Allora, com’è possibile che all’improvviso queste tre vie siano diventate proprio il suo principale nemico? Sembra che quando la coscienza dell’essere umano, che ancora non era un essere ben definito, si ampliò - quando si ampliarono l’immaginazione, la percezione del mondo ed il ricordo del passato - sembra che proprio allora, proprio per l’ampliarsi di queste funzioni, sia sorta una resistenza. Come sempre succede quando si tratta di funzioni interne: cerchiamo di portare avanti una nuova attività ed ecco che incontriamo una resistenza. Come quando si incontra una resistenza nel mondo naturale: quando piove, l’acqua che cade scorre fino ai fiumi trovando resistenze al suo passaggio; superandole e vincendole, l’acqua finalmente arriva al mare.

Per il fatto stesso di svilupparsi, l’essere umano incontra delle resistenze; ma incontrandole si fortifica, fortificandosi integra le difficoltà ed integrandole le supera. Se è così, la sofferenza che è sorta in concomitanza con lo sviluppo dell’essere umano, ha anche avuto la funzione di fortificarlo e di permettergli di andare oltre essa. Dunque, in certe tappe della storia umana anteriori a quella attuale, la sofferenza deve aver contribuito essa stessa allo sviluppo dell’essere umano, nel senso che essa stessa ha creato le condizioni per essere superata.

Noi non aspiriamo alla sofferenza. Noi aspiriamo anche a riconciliarci con la nostra specie, che tanto ha sofferto, perché grazie ad essa siamo pronti a spiccare il volo verso nuove mete. La sofferenza dell’uomo primitivo non è stata inutile; la sofferenza di generazioni e generazioni, che sono state limitate da mille condizionamenti, non è stata inutile. Il nostro ringraziamento va a coloro che ci hanno preceduto nonostante la loro sofferenza, perché è grazie ad essi che possiamo tentare nuove liberazioni.

Questo per quanto attiene al fatto che la sofferenza non è nata all’improvviso, bensì con lo sviluppo e la crescita dell’uomo. Deve essere chiaro, però, che noi, in quanto esseri umani, non aspiriamo a continuare a soffrire: al contrario, aspiriamo a superare le resistenze aprendo allo sviluppo umano strade nuove.

Ma abbiamo detto che la soluzione al problema della sofferenza la troveremo nel senso della vita, che abbiamo definito come una direzione verso il futuro che dà coerenza alla vita, che permette di dare un inquadramento alle diverse attività che si portano avanti e che giustifica la vita stessa in modo completo. Questa direzione verso il futuro è della massima importanza in quanto, secondo quel che abbiamo osservato, se si taglia la via dell’immaginazione, la via dei progetti, la via del futuro, l’esistenza umana perde appunto direzione e questo costituisce una fonte inesauribile di sofferenza.

E’ chiaro a tutti che la morte risulta essere la più grande sofferenza legata al futuro. E’ chiaro che, nella prospettiva della morte, la vita non può che assumere il carattere di un fatto provvisorio. Ed è chiaro che, in questo contesto, qualunque costruzione umana finisce per apparire come qualcosa di inutile che porta verso il nulla. Per questo, forse, l’aver allontanato lo sguardo dal dato di fatto della morte ha permesso di pensare la vita come se la morte non esistesse... Chi crede che, per quanto lo riguarda, tutto finirà con la morte, potrà trovare conforto nell’idea che sarà ricordato per le sue azioni eccezionali o che i suoi cari, o addirittura le generazioni future, non si dimenticheranno di lui. Ma quand’anche così fosse, in definitiva tutti sarebbero in cammino verso un assurdo nulla che renderebbe vano ogni ricordo. Si potrebbe anche pensare che tutto quel che si fa nella vita, lo si fa per rispondere ai bisogni nel miglior modo possibile; ammettiamolo pure: ma i bisogni avranno fine con la morte ed a quel punto qualunque lotta per uscire dal dominio del bisogno perderà senso. Si potrà dire che la vita personale ha scarsa importanza rispetto alla vita della specie e che pertanto la morte personale non ha significato. Se ciò fosse vero né la vita né le azioni personali avrebbero alcun significato; qualsiasi legge e qualsiasi impegno sarebbero immotivati e sostanzialmente non ci sarebbe una grande differenza tra le azioni benefiche e quelle malvagie.

Niente ha senso se tutto finisce con la morte: e se questo è vero, allora l’unica soluzione possibile per passare attraverso la vita consiste nel dotarci in continuazione di un senso, di una direzione provvisoria sulla quale volgere la nostra energia e le nostre azioni. E ciò è proprio quanto si fa abitualmente; ma per questo è necessario non cessare mai di negare la verità della morte, è necessario fare come se essa non esistesse.

Se domandiamo a qualcuno quale sia il senso della sua vita, con grande probabilità quel qualcuno ci risponderà che tale senso sta nella sua famiglia, oppure che sta nel suo prossimo o in una determinata causa che, secondo lui, giustifica l’esistenza. Sono questi significati provvisori a dargli una direzione, a permettergli di affrontare l’esistenza; ma basterà che sorga un qualche problema con le persone care, basterà che la causa abbracciata gli produca qualche delusione, basterà che il significato scelto cambi in qualche aspetto, perché l’assurdo e il disorientamento ritornino ad afferrarlo.

C’è anche da dire che i significati e le direzioni provvisorie della vita possono cessare di costituire un riferimento e non risultare più utili per il futuro proprio nel caso in cui vengano raggiunti. E può anche darsi che cessino di costituire dei riferimenti utili nel caso contrario, cioè quando non vengono raggiunti. E’ certo che dopo il fallimento di un senso provvisorio resta sempre l’alternativa di adottarne uno nuovo, magari opposto al precedente. Così, passando da un senso provvisorio ad un altro, con gli anni si finisce per perdere ogni traccia di coerenza e questo fa aumentare la contraddizione e la sofferenza che da essa deriva.

La vita non ha senso se tutto finisce con la morte. Ma è poi vero che tutto finisce con la morte? Davvero non si può arrivare a scegliere una direzione definitiva che non cambi con gli accidenti della vita? E quali possibili posizioni assumono gli esseri umani di fronte al problema posto dal fatto che tutto termina con la morte? Esamineremo questi punti dopo aver discusso assieme quanto è stato detto fin qui.

(Pausa e discussione)

Prima abbiamo individuato le tre vie attraverso cui sorge la sofferenza, ora descriveremo i cinque possibili stati o modi di porsi rispetto al problema della morte e della trascendenza. Chiunque potrà trovare collocazione in qualcuno di questi cinque stati.

C’è un primo stato che corrisponde a chi ha la prova indubitabile - data dall’esperienza diretta, non dall’educazione o dall’ambiente -, la prova evidente, indiscutibile, che la vita è un transito e che la morte è un incidente di poco conto.

Ci sono altri che credono che la vita umana abbia come fine una qualche forma di trascendenza; questa credenza viene loro dall’educazione, dall’ambiente, non da qualcosa di sentito, di sperimentato; non da qualcosa di evidente per loro ma da qualcosa che è stato loro insegnato e che essi accettano, senza alcuna esperienza.

C’è poi un terzo modo di porsi nei confronti del senso della vita, ed è quello di chi vorrebbe avere una fede o un’esperienza. Avrete certamente incontrato persone che dicono: “Se potessi credere in certe cose la mia vita sarebbe diversa”. Gli esempi a cui si riferiscono non mancano: persone cui sono capitati molti incidenti, molte disgrazie, e che hanno saputo dominarli grazie alla fede o alla certezza interiore del fatto che, trattandosi di qualcosa di transitorio o di provvisorio, essi non avrebbero costituito la fine delle possibilità della vita bensì una prova, una resistenza che - in un modo o nell’altro - li avrebbe fatti diventare più esperti e saggi. Può persino darsi che abbiate incontrato persone che accettano la sofferenza come strumento di apprendimento: non che cerchino la sofferenza (a differenza di altri che sembra le siano particolarmente affezionati). Stiamo parlando di quelle persone che riescono semplicemente a cogliere il lato migliore delle cose, anche difficili, che gli succedono. Persone che non vanno a cercare la sofferenza, tutto il contrario, ma che, in una situazione data, la assimilano, la integrano e la superano.

Ci sono dunque persone a cui corrisponde questo stato: non hanno fede, non credono nella trascendenza, ma desidererebbero avere qualcosa che desse loro coraggio e direzione nella vita. Sì, ci sono persone di questo tipo.

Così come ci sono persone che sospettano, a livello intellettuale, che esista un futuro dopo la morte, una trascendenza. Si limitano a ritenere possibile questa ipotesi pur senza contare su alcuna esperienza di tipo trascendente o alcun tipo di fede e senza peraltro aspirare ad averle. Di certo conoscerete persone come queste.

C’è, infine, chi nega ogni possibilità di trascendenza. Avrete sicuramente incontrato numerose persone che la pensano in questo modo e non ne mancheranno anche tra di voi.

Ecco quindi che, con differenti sfumature, ciascuno può effettivamente riconoscersi in una delle cinque categorie: in chi ha le prove, e considera la trascendenza un fatto indiscutibile; in chi ha fede perché l’ha assimilata da piccolo; in chi vorrebbe avere un’esperienza o fede in qualcosa; in chi considera intellettualmente possibile la trascendenza, senza porsi ulteriori problemi; in chi la nega.

Ma con questo non abbiamo esaurito il tema delle diverse posizioni che si possono assumere di fronte al problema della trascendenza, perché sono possibili differenti gradi di profondità in ciascuna di tali posizioni. In effetti, troviamo persone che sostengono di avere fede, sebbene una tale affermazione non abbia una rispondenza effettiva con quanto esse sperimentano. Con questo non intendiamo dire che mentano, quanto piuttosto che parlano in modo superficiale. Oggi affermano di avere fede, ma domani potrebbero dire di non averla.

Dunque è possibile riconoscere differenti gradi di profondità nei cinque modi di porsi nei confronti della trascendenza, gradi che dipendono dalla fermezza (o mutevolezza) delle convinzioni che si afferma di avere. Abbiamo conosciuto persone devote, appartenenti ad un determinato credo, che alla morte di un familiare, di un essere amato, hanno perduto tutta la fede che dicevano di possedere e sono precipitate in uno stato di completa mancanza di senso. La loro era una fede superficiale, periferica, posticcia. Le cose sono andate in modo ben diverso per quelle persone che, pur colpite da una grande catastrofe, hanno potuto far ricorso ad una fede ferma.

Abbiamo anche conosciuto persone convinte della totale irrealtà della trascendenza. Secondo loro quando si muore si scompare per sempre. Esse avevano fede, per così dire, nell’idea che tutto finisse con la morte. Eppure, in una certa occasione, mentre passavano accanto ad un cimitero, hanno allungato il passo e si sono sentite inquiete... Un simile comportamento è mai compatibile con la convinzione ferma che tutto abbia termine con la morte? Questo ci fa capire che esistono anche persone la cui posizione di negazione della trascendenza può essere estremamente superficiale.

Dunque non solo possiamo collocarci in uno dei diversi stati che abbiamo descritto ma anche in un diverso livello di profondità all’interno di esso. In differenti periodi della nostra vita abbiamo creduto cose differenti in merito alla trascendenza. Abbiamo cambiato idea in varie occasioni. Qui abbiamo a che fare con qualcosa di mobile, non con qualcosa di statico. E cambiamenti di questo genere non sono in rapporto solo con i diversi periodi ma anche con le diverse situazioni della nostra vita. La nostra situazione cambia e parallelamente cambiano le nostre credenze in merito al problema della trascendenza. Dirò di più: il cambiamento può avvenire da un giorno all’altro. A volte mi succede di credere in una certa cosa la mattina e di non crederci già più la sera. E così il modo di porsi nei confronti della trascendenza, che dovrebbe essere della massima importanza in quanto attiene all’orientamento stesso della vita umana, risulta invece essere qualcosa di estremamente variabile. Proprio questa variabilità finirà col provocare sconcerto nella vita quotidiana.

Abbiamo detto che l’essere umano può collocarsi in uno di questi cinque possibili stati e ad un diverso livello in ciascuno di essi. Ma qual è la collocazione corretta? Ed esiste veramente una collocazione corretta o stiamo semplicemente ponendo dei problemi senza poterne fornire le soluzioni? Siamo in grado di dire quale sia la migliore collocazione nei confronti del problema della trascendenza?

Alcuni dicono che la fede c’è o non c’è in una persona, che la fede sboccia o non sboccia. Ma osservate con attenzione questo particolare stato di coscienza che è la fede. Una persona può non avere assolutamente fede, ma nonostante questo - nonostante sia priva di fede o di un’esperienza trascendente - desiderare di averla. Una tale persona può persino arrivare a comprendere intellettualmente che avere fede può essere importante, può intuire che valga la pena disporsi a cercarla: ma attenzione, se ciò succede è perché qualcosa che ha a che fare con la fede si stava già manifestando all’interno di quella persona.

Quanti riescono a trovare la fede o ad avere un’esperienza trascendente, pur non potendole definire in termini precisi (così come non si può definire l’amore), riconosceranno la necessità di dare un orientamento ad altri, di indirizzarli sulla loro stessa via ma non tenteranno mai di imporre il proprio paesaggio a chi non vi si riconosca.

E così, coerentemente con quanto ho affermato, dichiaro innanzi a voi la mia fede e la mia certezza basata sull’esperienza nel fatto che la morte non chiude il futuro, che la morte, al contrario, modifica lo stato provvisorio della nostra esistenza per lanciarla verso la trascendenza immortale. Non impongo la mia certezza né la mia fede e vivo accanto a coloro il cui modo di porsi nei confronti del senso della vita è diverso dal mio; tuttavia mi sento obbligato ad offrire, per solidarietà, il messaggio che riconosco rende libero e felice l’essere umano. Per nessun motivo eludo la responsabilità di esprimere le mie verità, per quanto esse possano apparire discutibili a chi sperimenta la provvisorietà della vita e l’assurdità della morte.

D’altra parte non chiedo mai agli altri quali siano le loro credenze personali ed in ogni caso, pur definendo con assoluta chiarezza la mia posizione su questo punto, proclamo per ogni essere umano la libertà di credere o non credere in Dio e la libertà di credere o non credere nell’immortalità.

Tra le migliaia e migliaia di donne e di uomini che, fianco a fianco, lavorano con noi in modo solidale, si contano atei e credenti, persone con dubbi e certezze; ma a nessuno viene chiesto quale sia la sua fede; e tutto ciò che viene dato, viene dato come un orientamento, affinché ciascuno decida per proprio conto quale sia la via che meglio chiarisca il senso della sua vita.

Evitare di proclamare le proprie certezze non è coraggioso, ma tentare di imporle non è degno della vera solidarietà.